Da Kaam Samnor a Siem Reap via fiume.

località: phnom penh, siem reap
stato: cambogia (kh)

Data inizio viaggio: martedì 4 ottobre 2005
Data fine viaggio: giovedì 6 ottobre 2005

Vediamo sventolare una bandiera cambogiana sulla riva sinistra del Mekong questo significa che siamo al border di Kaam Samnor. La frontiera è aperta da poco. Il Vietnam alle spalle, la Cambogia di fronte! Il Mekong s’allarga tanto che le sponde si distinguono appena. Proseguendo vediamo capanne sommerse fino ai tetti, incontriamo imbarcazioni piene zeppe di persone, alcune delle quali hanno la bandiera della croce rossa… ci mettiamo un po’, poi, finalmente, capiamo: il Mekong è esondato. Il via vai di barche sono i soccorsi inviati alla popolazione alluvionata rimasta senza tetto.
Continuando a risalire la corrente, il fiume, a poco a poco, rientra in quelli che sono i suoi argini naturali. In territorio cambogiano, apparentemente il paesaggio non cambia, i soliti bambini che sguazzano in acqua, donne e uomini ai remi che attraversano il fiume da una sponda all’altra, imbarcazioni che risalgono altre ridiscendono cariche di persone o mercanzia, ma i villaggi che punteggiano le rive sono assai più miseri di quelli visti in Vietnam. In Cambogia s’avverte una maggiore povertà.

Impiegheremo quasi un’intera giornata per raggiungere Phnom Penh, Visitiamo per prima il Tuol Sleng Museum il noto carcere “S – 21” all’interno del quale i khmer rossi del famigerato Pol Pot torturavano e uccidevano anche solo chi fosse sospettato d’idee antigovernative. Il carcere è raccapricciante. Echi raggelanti provengono dai corridoi e dalle celle. Fisso con sgomento le foto dei civili con i corpi martoriati dalle crudeli torture. Rabbrividisco nel vedere le chiazze di sangue che ancora imbrattano i muri e gli strumenti utilizzati per procurare orribili dolori a quei poveracci fino ad indurli alla morte.
I supplizi patiti dai carcerati erano così inumani che i prigionieri preferivano togliersi la vita buttandosi dalle finestre piuttosto di continuare a subire le più pazzesche umiliazioni fisiche e morali che una mente umana possa immaginare. Pol Pot, però, pensò anche a questo e fece recintare, con del filo spinato, corridoi, balconi e finestre per impedire i suicidi. Infine mi sento scorrere il freddo nelle ossa a leggere le motivazioni che indussero a tanto orrore: bastava essere intellettuali o, addirittura, portare semplicemente gli occhiali. Se fossi nato in Cambogia, anziché in Italia, portando gli occhiali sarei stato sicuramente una vittima del regime. I Khmer Rossi di Pol Pot rappresentano uno degli episodi più tristi della storia dell’umanità! Quando nel 1979 l’esercito vietnamita entrò nel carcere trovò solo 7 persone vive. I morti sepolti in fosse comuni nei cortili. Il carcere degli orrori diventò, nell’opinione pubblica mondiale, un grave scandalo ed oggi è diventato il simbolo della follia umana di Pol Pot. L’UNESCO, penso, debba inserire nella lista del patrimonio dell’umanità il “carcere S – 21”, come uno di quei luoghi che testimoniano i tanti genocidi perpetrati dall’uomo, affinché l’umanità intera, non importa di che religione o razza, s’interroghi sui millantati valori morali e civili conquistati.
La preferenza attribuita al carcere “S – 21”, purtroppo, ci costa la visita alla Pagoda d’Argento, peccato non vedere le 5000 piastre d’argento che contiene. Ci immergiamo, allora, nella vita animata della piazza antistante il palazzo Reale, oggi particolarmente frenetica trattandosi di un giorno festivo. La gente viene qua per riunirsi, gli uomini per discutere, le donne a passeggiare e i bambini per giocare. La Cambogia sembra stia faticosamente cercando una dimensione di vita normale dopo le scelleratezze di Pol Pot e dei khmer rossi.
Strada facendo arriviamo al Wat Phom, che l’imbrunire rende suggestivo per via delle candele votive accese lungo il percorso d’accesso al tempio. Sulla collina vivono parecchie scimmie, le s’incontra fin quasi alla porta d’ingresso. Il tempio è vuoto ad eccezione di tre monaci buddisti, vestiti con la tunica arancione e con la testa rasata.
All’uscita dal tempio, ma in realtà in tutta la Cambogia, mendicanti, vittime delle mine, ci chiedono l’elemosina. In Cambogia basta un passo sbagliato in mezzo alla campagna e si rischia di restare storpi per tutta la vita. Le persone mutilate dalle mine non sono considerate dal governo vittime di guerra e quindi non possono contare su alcun sussidio statale, impieghi o alcun che minimo riconoscimento.
Una corsa al mercato di Psar Thmei che ricorda uno ziggurat babilonese a fare acquisti e, poi, cena. La consumiamo al Goldfish River Restaurant. La serata inizia in maniera idilliaca. Con la luna piena, mangiamo, su di una balconata in riva al Mekong, ogni sorta di pesce, ma prima il vento, poi la pioggia, rovinano l’incanto. Typhoon, urla il proprietario invitandoci ad entrare. Ritornati all’hotel, al bar due coppie attirano la nostra attenzione. Si tratta di due anziani, grossi e grassi uomini occidentali, insieme a due giovani, piccole e magre ragazze cambogiane. E’ evidente di quale compagnia si tratta.

Di buon mattino al porto ci imbarchiamo sul battello diretto a Siem Reap. Lasciamo definitivamente il Mekong per l’affluente Tonlé Sap e l’omonimo lago. La vita sulle sponde del Mekong che finora ci aveva accompagnato nel corso della nostra risalita verso nord, ora sul Tonlé Sap, man mano che ci s’inoltra, diventa più rara e le rive più desolate. Presso Udong vediamo gli ultimi segni di civiltà. All’orizzonte si stagliano, sulle creste montuose, templi bianchissimi che sembrano avere per la loro posizione e grandiosità una rilevante sacralità. Il fiume, - strano, ma vero - in questo periodo dell’anno, a causa dell’abbondanza d’acqua, scorre all’indietro verso il bacino lacustre anziché verso il Mekong. All’approssimarsi del lago, poi, le coste s’allontano fino a non vedersi più e per un’ora circa sembrerà di navigare in mare aperto. Prima di sbarcare a Phnom Krom il nostro piccolo battello riduce sensibilmente la velocità per attraversare questa vera e propria città galleggiante. Qui i bambini non giocano per strada, ma in acqua. I taxi non sono automobili, ma canoe. Le case, la scuola, il piccolo museo, il benzinaio sono edificati su barche o palafitte.

Siamo arrivati alla meta finale del nostro viaggio, i templi di Angkor, antica capitale del regno Khmer, proprio nel cuore della Cambogia. Pochi luoghi al mondo stregano come queste rovine in parte sopraffatte dalla giungla. Angkor non è soltanto un sito archeologico che rinchiude centinaia di templi, ma è un luogo unico che ammalia e fa’ perdere il senso della realtà. Ad ognuno di noi ha trasmesso emozioni diverse: ci ha catturato, sorpreso e allontanato per un giorno intero dal viaggio e dalla civiltà.
L’appuntamento è al sorgere del sole presso l’ingresso di Angkor Wat. Vi giungiamo in bicicletta. Il tempio è riverente, si ha l’impressione di varcare qualcosa di proibito, e quando Angor Wat appare è come una presenza viva e non un palazzo di pietre. L’incanto è completato dall’armonia della brezza dell’alba e dai suoni arcani della foresta.
Ad Angkor Thom si ha, invece, l’impressione di entrare in un sito archeologico appena scoperto per via dei suoi monumenti nascosti nella foresta. Un silenzio tombale aleggia nell’aria umida e puzzolente di muffa. I monumenti emergono a fatica, ma sontuosi, dalle radici degli alberi.
Giunti al Bayon un non so che di misterioso ci rapisce. Sono i profili dei giganteschi volti impietriti delle facce che lo costituiscono, le quali s’irradiano tutt’intorno moltiplicandosi infinite e infinite volte quasi a voler simboleggiare l’eternità. La luce del sole sta per cedere la scena alle ombre della sera e l’enormi facce ultraterrene sembrano bisbigliare tra loro in un linguaggio antico e in uno spazio che pare al di là del tempo.
Angkor… La magia è compiuta!

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