India. Quello che le guide non dicono
località: delhi, varanasi, udaipur, jaipur, jodhpur
regione: rajasthan, uttar pradesh
stato: india (in)
Data inizio viaggio:
sabato 14 agosto 2010
Data fine viaggio:
sabato 4 settembre 2010
L’organizzazione del viaggio in India è faticosa e millimetrica, quando decidi di viaggiare sui treni, quelli vanno prenotati con settimane di anticipo, devi stare in prima classe se vuoi evitare sorprese.
La guest house di Delhi si trovava in una zona spaventosa, in una strada praticamente in costruzione, buia, tutta voragini, pozzanghere, calcinacci, impalcature e cani randagi.
Con la luce, tutto ha cominciato ad apparire meno difficile; le persone, lì, in quella minuscola guest house, avevano qualcosa di strano: erano gentili, disponibili, amichevoli, preoccupate che avessi tutto ciò che ti serve per essere felice, che sapessi come muoverti in quell’assurda città.
Perché Delhi è l’inferno.
Ammassi di persone che tentano di venderti qualunque cosa, strade intasate da mezzi di locomozione di ogni tipo, mucche, cani, pecore, risciò, biciclette, motorini, tuc tuc, pullman e tutti intenti a suonare ininterrottamente il clacson o qualunque cosa sia in grado di emettere un rumore fastidioso.
La parte vecchia, un intrico di stradine strette piene degli odori di chi ci vive, piene dei colori di qualche aquilone incastrato tra le migliaia di fili elettrici che avvolgono ogni casa alla rinfusa, piene di uomini che sembrano avere 200 anni, di donne avvolte in sari multicolore; se entri in un cortile puoi trovare una ragazza che stira mucchi di camicie con un vecchio ferro a brace, o un uomo intento a pregare rivolto al muro, e in quel muro c’è una grande crepa, e nella grande crepa un piccolo tempietto con una minuscola statuina rossa che sorride beffarda.
La parte nuova, un cantiere continuo e inesauribile, lo strenuo tentativo di assomigliare ad un’altra città, senza capire quale, non c’è strada, non c’è angolo che non abbia voragini, che non abbia operai che trasportano cataste di cianfrusaglie grandi quanto il pianeta.
E ovunque cliniche, ospedali, strutture modernissime con le attrezzature più all’avanguardia; e ti chiedi come sia possibile che questo, possa convivere con quello.
Le strade, le autostrade sono costantemente intasate e stipate di essere umani e animali, non esiste destra o sinistra, non esiste precedenza, non ci sono regole, i semafori stanno lì a puro scopo decorativo, semplicemente ci si butta in strada, alla velocità massima possibile, ci si attacca al clacson e si prega: di arrivare in tempo, di arrivare a destinazione, di arrivare tutti interi, ma anche solo di arrivare.
L’India, nei primi giorni, è tutto ciò che non riesci a prevedere, è aerei costantemente quasi persi, non si sa perché, è treni presi sempre letteralmente al volo, perché non è vero che i treni in India sono sempre in ritardo, loro sono puntuali, sei tu che non riesci mai ad arrivare, che ti trovi su un taxi che non riesce a sbrogliarsi dall’intrico di mucche, ed ha iniziato a piovere e le pozzanghere sono dei torrenti, sei tu che non hai capito che a Delhi ci sono 2 stazioni che hanno lo stesso nome e tu sei in quella sbagliata, sei tu che non lo sai che i treni hanno 1000 vagoni e sono lunghi chilometri e non arriverai mai nel tuo scompartimento.
A volte nelle stazioni trovi un angelo custode. Un vecchietto che pesa meno di te, ma che ha 1000 anni in più, che vedendoti bagnata di sudore e con i lacrimoni che ti scendono per non riuscire a capire quale dei 600 binari che ti stanno intorno sia quello giusto, dà un’occhiata fugace alla tua prenotazione, si carica la tua valigia di 30 chili sulla testa e si mette a correre alla velocità del fulmine, su e giù per scale interminabili, tra bivacchi di bambini e carrelli di bagagli, tra vagoni bestiame che contengono esseri umani e donne tintinnanti di bracciali che sistemano il sari sulla spalla, e in un attimo sei sul treno, solo grazie a quell’angelo custode.
E poi sui treni ti ritrovi in una minuscola cuccetta sopra quella di un Ministro che viaggia con sua moglie, che di lì a poco saranno accolti dal capotreno con il saluto militare, che ti offriranno i loro snack, che scenderanno dal treno all’alba, e per non svegliarti si vestiranno piano, senza accendere la luce.
Improvvisamente un giorno arrivi sul Gange, a Varanasi, e la tua scala di priorità crolla.
Soltanto a Varanasi puoi capire cosa sono veramente i colori, che cosa sono gli odori, cosa può dire realmente uno sguardo.
Arrivi sulla riva limacciosa di quel grande fiume che sembra il mare, un mare marrone, e vedi passare sulla superficie il cadavere di una pecora, e ti accorgi, all’alba, delle migliaia di pellegrini che sono arrivati qui, dopo giorni di cammino, per bagnarsi in quelle acque puzzolenti.
E tutto diventa arancione.
E allora ti rendi conto che credere è lasciarsi semplicemente andare senza cercare di capire, è un’esplosione di colore, è un canto infinito che non sai da dove arriva, è una colonna di bufali che fanno il bagno, è l’immensa scalinata del ghat ricoperta di abiti stesi lì ad asciugare, è gli ombrelloni di bambù con sotto bramini vecchissimi, che ti benedicono tra i fumi dell’incenso, è il negozio del barbiere fatto solo di uno specchio, di un pennello e di sapone lì all’aperto, in mezzo al nulla, in mezzo a tutto.
A Varanasi ci sono gli dei, ce ne sono migliaia e ti sembra di sentirli, sbucano sorridenti da minuscoli tempietti in ogni pertuglio e ti accompagnano lungo il tuo cammino nelle strade strettissime, che se incontri una mucca devi per forza tornare indietro.
A Varanasi ci sono le donne colorate, sedute sulla soglia delle loro case fatte di nulla.
A Varanasi ci sono i bambini belli, con gli occhi neri giganteschi e i denti bianchissimi, scalzi, vestiti di stracci, nudi di stracci, che giocano con l’aria.
A Varanasi bruciano i morti, le pire incendiate ti rapiscono e non riesci a non guardare quando la pelle e la carne ormai non ci sono quasi più, e le persone vengono ripiegate su se stesse, come maglioni.
A Varanasi, ci sono le cerimonie con le preghiere, l’incenso, i fuochi e le luci di mille candele appoggiate sul fiume.
A Varanasi non c’è la speranza, c’è lo svegliarsi alla mattina per arrivare a sera, senza nulla nel mezzo.
Te ne devi andare da lì se non vuoi essere rapito, se non vuoi cominciare a desiderare di passarvi il resto della vita, dimenticando per sempre il tubo che gocciola, la bolletta da pagare, l’agenda degli appuntamenti, i compleanni delle amiche, l’autunno, l’inverno, il Natale.
Quando arrivi nel Rajasthan, ti sembra già di averla capita l’India, forse uno piccolo, di quegli dei, magici e multiforme, è venuto con te, si è infilato di soppiatto nella tua tasca e ha deciso di farti compagnia.
Ti ricopri dei colori della città azzurra, della città bianca e della città rosa, hai imparato a parlare con le persone, hai imparato che non puoi aver paura di quella miseria, una miseria senza via d’uscita, che in quella miseria c’è un’infinita dignità che tu non avrai mai, c’è una pace e c’è una rassegnazione, c’è l’ombra di secoli di oppressione, di schiavitù che ha lasciato cicatrici sui visi delle persone, ma in mezzo ad occhi che ridono.
Parli con loro, con i bambini, cercando di convincerli ad andare a scuola, perché la scuola è più importante delle 4 cartoline vendute ai turisti durante il giorno; ma i loro argomenti sono forti dei tuoi, i loro argomenti sono la fame, sono i loro 5, 10, 100, son il loro papà che ha trovato lavoro in una città lontana per un mese e dorme tutte le notti sull’asfalto sul davanti del cantiere, per non perderlo.
E la loro fame ha un sorriso più aperto della tua disillusione.
Tutto questo, le guide non te lo dicono.
Centinaia di pagine che non riescono a raccontare come ti si scioglierà il cuore, nell’India dei bambini e dei sorrisi, e dei colori
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