bosnia in scooter
località: srebrenica
stato: bosnia e herzegowina (ba)
Data inizio viaggio:
mercoledì 5 luglio 2006
Data fine viaggio:
sabato 15 luglio 2006
LA VIA DOLOROSA
La mattina decido di andare a srebrenica. La notte ho dormito
poco e mi sento teso come una corda di violino. L’idea di andarci sapendo
quello che è successo mi inquieta. Faccio una colazione molto frugale, ho lo
stomaco in subbuglio. Tra l’altro devo percorrere oltre 150 chilometri e
farne altrettanti al ritorno.
Non so perché ma ho deciso di non dire a nessuno che vado a srebrenica.
Ho paura che mi dissuadano dall’andarci o di suscitare ostilità. Su un
pezzo di carta mi scrivo i nomi dei paesi che via via incontrerò sulla strada
fino a Milici dove c’è l’ultima deviazione che mi porterà a srebrenica.
Faccio sosta ogni 30 chilometri circa per bere un caffè, e per chiedere
informazioni perché qui tornano i cartelli in cirillico e non ho voglia di
sbagliare strada visto che i chilometri da fare sono già tanti così.
Quando arrivo a Vasglanica, una cittadina un po’ più grande delle altre
incontrate fino ad ora e bivio importante per srebrenica, mi trovo
davanti a un cartello giallo con più di sei indicazioni in cirillico. Per fortuna
due ragazzi stanno lavorando dentro il cortile di una casa, e chiedo
chiarimenti a loro. Non nomino srebrenica neanche a loro, sempre
convinto che la cosa susciti fastidio. Invece i ragazzi guardano la targa e
nuovamente scopro che Trieste in Bosnia è conosciuta, non fosse altro che
per i traffici di Jeans e oro che hanno arricchito a dismisura i
commercianti del Borgo Teresiano negli anni ’70 e ’80. Mi danno
informazioni molto esaustive su come raggiungere Milici e mi scrivono il
nome in cirillico su un pezzo di carta e poi, convinti che io prosegua per
Belgrado, mi raccomandano di portare un bacio a tutte le ragazze
belgradesi. Con il mio misero inglese riesco a fare anche qualche battuta
spiritosa e a farli ridere (o forse ridono per il mio inglese?). Li saluto e
dopo una trentina di chilometri trovo Milici e il bivio che porta a
srebrenica. Mi fermo all’angolo a riprendere fiato e mi siedo in una
trattoria per un caffè.
Mentre il ragazzo mi serve, dalla cucina arriva un buon profumo di
cevapcici che stanno grigliando. A lui non posso nascondere la mia
destinazione: quando mi chiede dove sto andando glielo dico ma non fa
una piega e mi indica la strada. Vuole far due chiacchiere e mi chiede da
dove vengo e quanta strada ho fatto. “Tutto con quello?” dice indicando il
piccolo Dink. “ Very long drive!” commenta.
E’ ormai l’una e sono in sella da 4 ore tra una sosta e l’altra. E’ ora che io
vada e mi decida a fare l’ultimo tratto che mi separa da srebrenica. Gli
chiedo che cosa c’è da mangiare e dopo aver sentito il menù, decido di
fermarmi al ritorno per pranzare. Ci salutiamo e rimonto in sella. Le case
sulla strada mostrano ancora evidenti i segni della guerra. Certe sono
semidistrutte, altre in fase di ristrutturazione, e poi i soliti monconi
anneriti dagli incendi e abbandonati dai proprietari. I segni delle granate
formano con il loro buchi quadri astratti…mi ricordano i “buchi” di
Fontana. Mi si chiude lo stomaco a pensare a tutto l’orrore accaduto qui.
Quando in lontananza appare la sagoma del capannone dell’ex fabbrica di
Potocari dove i Caschi Blu olandesi avevano il comando e dove si erano
rifugiati i profughi in fuga da srebrenica che stava per capitolare, mi
vengono i brividi.
C’è un posto di blocco proprio di fronte al Memoriale delle vittime del
genocidio e naturalmente vengo fermato per un controllo. Il poliziotto non
parla inglese e ad occhio gli consegno, come fosse un rito, patente,
libretto e carta verde. E’ un po’ burbero, insiste col parlarmi in serbo
anche se sa bene che non lo capisco. Mantengo la calma e sorrido. Lui
guarda la patente ed esclama “Ah, italijanski!” “Qualche problema?” gli
chiedo io. “Nema problema!” Mi indica il posteggio del Memoriale e ripete:
“Nema problema”.
Un semicerchio marmoreo contiene incisi i nomi delle vittime in ordine
alfabetico. Un uomo scorre con lo sguardo le iscrizioni probabilmente in
cerca di un parente o di un amico tenendosi una mano premuta sulla bocca.
Mi vergogno come un ladro quando scatto l’unica foto all’interno del
Memoriale. Fuori tutto sembra indifferente, i poliziotti chiacchierano e
ridono tra loro all’ombra della tettoia della casamatta appoggiata alla
recinzione che separa la strada dalla fabbrica. Il capannone appare come
un luogo sinistro della memoria e della vergogna dell’Europa.
Esco e rimetto lo scooter in strada per fare questi 7 chilometri che
mancano a srebrenica. In pochi minuti sono in città, oggi semideserta e
mancante di qualsiasi sovrastruttura; l’acqua arriva solo a ore e così anche
la corrente. Qui un tempo c’erano le terme che però sono state distrutte
dalle granate nel tentativo, peraltro riuscito, di interrompere
l’approvigionamento dell’acqua durante l’assedio. Un tempo questa era una
fiorente e ricca città di miniere d’argento (srebo). Quella di Sasa in
particolare era attrezzata in modo tecnologicamente moderno e prima
della guerra impegnava 1800 persone di cui 400 erano minatori. Dal ’93 al
’95, anno della capitolazione, srebrenica venne dichiarata area protetta
dall’ONU e stretta d’assedio dalla milizie serbo-bosniache.
Inspiegabilmente, almeno dal punto di vista umano, il 30 maggio 1995
l’ONU dichiarò che le forze di interposizione dei Caschi Blu in Bosnia
avrebbero dovuto farsi da parte, una decisione che sarebbe stata fatale
per la città. Un paio di mesi più tardi, il 9 luglio l’esercito serbo-bosniaco
comandato dal generale Ratko Mladic, iniziò a bombardare la città senza
tregua. I Caschi Blu , obbligati al non intervento, cercarono di convincere
la popolazione ad arrendersi promettendo loro l’intervento aereo della
NATO che invece non sarebbe mai arrivato. Non solo, ma nel frattempo,
minacciati di morte, i Caschi Blu olandesi consegnarono a Mladic le loro
divise , i loro armamenti e i mezzi di trasporto. Gli uomini di Mladic
entrarono così indisturbati in città a bordo dei blindati dell’ONU accolti
dalla popolazione come liberatori. Le due settimane successive per gli
abitanti sarebbero state un autentico incubo. Circa 8000 uomini tra i 12 e
i 77 anni -ma l’associazione “Donne di srebrenica” insiste da tempo
affinché la cifra venga aggiornata a 10.072- vennero fatti prigionieri,
separati dalle donne e sommariamente passati per le armi.
1800 di loro che si erano rifugiati nell’ex fabbrica di motori dove si
trovava il comando dei Caschi Blu olandesi, furono falciati dai mitra nel
canneto di fronte, dove ora sorge il Memoriale. I pochi sopravvissuti
hanno testimoniato di fronte ai giudici che in quanto feriti riuscirono,
fingendosi morti, a fuggire nottetempo approfittando della stanchezza
dei soldati che per tutto il giorno avevano sparato sui loro compagni.
Quello che resta da sapere e da capire in questa tragedia, una delle
pagine di Storia più vergognose scritte dopo la seconda guerra mondiale, è
la verità politica: rimane un mistero perchè le forze internazionali
presenti non abbiano fatto nulla per evitare il bagno di sangue, perché la
NATO non le abbia sostenute con attacchi aerei, e come mai i quadri
dell’esercito bosniaco dell’Armija presenti in zona siano stati
improvvisamente spostati pochi giorni prima della resa della città.
Tra le varie cose che avevano indignato l’opinione pubblica, ci fu il
ritrovamento di un filmato in cui Padre Gavrilo Maric benediceva
immediatamente prima della mattanza armi e massacratori.
Quando riparto mi sento sollevato ed è come se mi fossi levato un peso.
Sono convinto però che chiunque pensi di fare un viaggio in Bosnia oggi,
non possa escludere dal suo itinerario srebrenica. L’eccidio qui avvenuto
rimarrà uno dei fatti più vergognosi accaduti in Europa nel secolo
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